Alberto Giannelli, Franco Angeli, Milano, 2007.
Recensione di Isabella Merzagora Betsos
Criminologi e, com’è ovvio, psicopatologi forensi hanno e hanno sempre avuto a che fare con la malattia mentale, sicché un libro che tratti di questo tema non può fare che bene. I motivi per leggere questo libro in particolare sono poi anche altri: non è propriamente un manuale, non ne ha l’ambizione né la mole, finisce però per essere un compendio dei temi e soprattutto dei problemi che agitano questa “disciplina indisciplinata” –come la definisce l’Autore che, non a caso, se ne occupa ad alti livelli scientifici da decenni. Scegliendo, con l’ovvia arbitrarietà degli interessi del recensore, vorrei segnalare il tema della “caduta delle mura” manicomiali, per il quale Giannelli cerca di rispondere alla domanda del perché siano cadute così tardi rispetto all’inizio dell’era psicofarmacoterapeutica; quello della riflessione etica, con la pubblicazione della “Carta di Milano” sui diritti del malato (e non solo); quello dei problemi medico legali della psichiatria; quello delle indicazioni che lo psichiatra deve seguire quando si trova di fronte ad un paziente minaccioso; quello del duplice risvolto semantico del termine “custodire”, che significa all’un tempo controllare e proteggere; quello delle nuove forme del disagio psicosociale (stalking, mobbing, gioco d’azzardo patologico).
Ma soprattutto, sempre a parere del recensore, sono allettanti le pagine dedicate allo statuto scientifico di questa “scienza di confine”, ovvero “la meno medica fra tutte le discipline mediche”, che si occupa della mente, e non del cervello, e quindi necessariamente anche di filosofia -Kant non aveva poi tutti i torti a volere che fossero i filosofi ad occuparsi di malattie mentali, al più: “Per gratitudine, il medico non dovrebbe poi negare al filosofo un suo intervento, se questi talvolta tentasse l’impegnativa ma sempre vana cura della pazzia”-, che ha come strumento la parola, che muta la definizione di “malattia” in funzione del contesto culturale. Scrive Teresa d’Avila nella propria Autobiografia intorno alla metà del Cinquecento: “Stando in preghiera, nella festa del glorioso san Pietro, vidi presso di me –o piuttosto sentii, perché non vidi nulla con gli occhi del corpo né con quelli dell’anima-, mi parve, dico, di vedere presso di me Gesù Cristo. Capii nel medesimo tempo che era lui che io credevo di sentir parlare”. Queste parole, se pronunciate da una qualsiasi persona oggidì comporterebbero eo ipso una diagnosi; nessuno stupore: semplicemente allora e secondo quella cultura, quel “delirio” era culturalmente compatibile. Ciò, insomma, per dire che la psichiatria è diversa dalla nefrologia, dalla traumatologia, dall’otorinolaringoiatria, e via citando, non tanto perché abbia un diverso oggetto –anche le materia menzionate hanno diversi oggetti, ma sempre riconducibili al biologico ed organico-, ma perché nel loro discorso l’uomo rientra con il suo corpo, poi con la sua mente, e poi anche con tutto il suo corredo culturale.
Dalle osservazioni circa le specificità della psichiatria rispetto alla medicina del corpo –neurologia compresa- emerge infine la proposta definita dall’Autore “utopistica” e “provocatoria”, ma che sarebbe bene prendere in seria considerazione: quella della creazione di una Facoltà di Psichiatria e Scienze del Comportamento, distinta da quella di Medicina, della quale Giannelli tratteggia persino un possibile piano di studi in cui non manca la criminologia (assieme alla psichiatria forense, per il vero: unico appunto che ci sentiamo di fare), e che sarebbe destinata a formare gli esperti della psiche e del comportamento patologici. Ebbene: perché no?
Isabella Merzagora Betsos
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