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Corpo esistenze mondi. Per una psicopatologia antropologica

Copertina Libro: Corpo esistenze mondi

Corpo esistenze mondi
Per una psicopatologia antropologica

Bruno Callieri, Edizioni Universitarie Romane, Roma, 2007.

Recensione di Cristiano Barbieri

L’Autore è certamente uno dei Maestri della Psicopatologia italiana, nella sua coniugazione non solo clinica (in proposito, si richiama il seguente contributo: Callieri B., Maldonato M., Di Petta G., Lineamenti di psicopatologia fenomenologica, Alfredo Guida Editore, Napoli, 1999; testo nel quale viene ripresa e ripubblicata la precedente opera Callieri B., Castellani A., De Vincentiis G., Lineamenti di una psicopatologia fenomenologica, Il Pensiero Scientifico Editore, Roma, 1972), ma anche forense (sia qui sufficiente rammentare: De Vincentis G., Callieri B., Castellani A., Trattato di Psicopatologia e Psichiatria Forense, Il Pensiero Scientifico Editore, Roma, 1972).
In questo libro, egli racconta l’incontro antropologico che lo psicopatologo fa con chi vive le diverse esperienze psico(pato)logiche; e, in questa narrazione, egli chiama in causa quelle categorie che fondano l’esistenza stessa, sana o alienata che sia: il corpo, lo spazio, il tempo, il rapporto con l’altro.

Si tratta di raffigurazioni nelle quali la vita del malato viene o coartata dalla colpa (come nella melanconia), o eccessivamente dilatata dall’euforia megalomania (come nella mania), o drammaticamente frantumata nelle più radicali connessioni di senso (come nella dissociazione schizofrenica), o confusa e dereisticamente riorganizzata (come nel delirio), o stenicamente reificata nella sessualità (come nella perversione), o angosciosamente parassitata (come nella ipocondria), o fanaticamente indirizzata (come nella paranoia), o rigidamente ritualizzata (come nell’anancasmo); forme di vita queste tutte condizionate da quella sofferenza psichica che investe non solo la corporeità, ma soprattutto l’esperienza del mondo, di sé e degli altri mediata dalla corporeità stessa, intesa non solo come corpo-oggetto, ma soprattutto come corpo-soggetto; al punto che la patologia, dalla dimensione “mentale”, assurge a quella “esistenziale”.
L’opera si articola in una tripartizione si rifà al titolo stesso.
La prima parte concerne il “corpo”, o meglio la presenza mondana incarnata in una corporeità che si declina nel “pudore” (con la sua dialettica con la sessualità), o nell’“amore” (tale solo nel dialogo tra due soggetti e mai nell’ambiguo rapporto soggetto-oggetto), o nel “tramonto” (ove la senescenza è vissuta più come fonte di decurtazione che di arricchimento esperienziale), o nella “morte” (evenienza questa ben diversa dal morire, poiché la morte consiste nella rottura di ogni comunicazione, di ogni Mit-Sein, mentre il morire, “come avvertimento della propria fine, come atto dello spegnersi, appartiene ancora tutto alla vita, se non proprio alla coscienza”).
La seconda parte riguarda “l’esistenza”, colta nella sua dialettica tra “psicopatologia e filosofia” (per cui, se l’esistenza è l’ “espressione dell’essenza del nostro essere uomini”, questa non può prescindere, anche nella clinica psichiatrica, da un incontro che, sul piano epistemico, cerca il senso dell’essere uomo nei diversi modi di soffrire); o collocata sul crinale tra “mente e cervello” (per cui la presenza umana né può mai essere ridotta a meri dinamismi pulsionali, né può mai essere reificata a semplici meccanimi neuro-biologici); o articolata nella “reciprocità” (perchè il Noi precede e fonda l’Io) e nell’ “incontro interpersonale” (perchè è appunto nella comunicazione Io-Tu che consiste il fondamento primo e più autentico dell’essere-nel-mondo); o compressa nel “racconto” (poiché, in ogni narrazione, la storia della malattia è innegabilmente intrecciata alla storia di vita del soggetto).
La terza parte si riferisce al “mondo”: “il mondo della vita” (cioè al “mondo come esperito da un soggetto vivente nella particolare prospettiva”); quello della “spazialità” e della “temporalità” del vissuto (poiché “…non si può oggi prescindere, per qualunque approccio di studio dell’esperire umano, dalle dimensioni spazio-temporali dell’esistenza); quello della “speranza” (“…nella sua storicità…fenomeno specificatamente umano”, espressione della “capacità” dell’uomo di “indirizzarsi verso un futuro pieno di significato”, posto che la vita è e-sistenza, cioè proiezione al di fuori di sé verso un completamento di sé; e qui è doveroso il richiamo alla lezione magistrale di Heidegger, per il quale il Dasein ha in sé il suo non-ancora, perché l’ Esserc-ci è un aver-da-essere); quello della “colpa” (epifenomeno di una condizione di cristallizzazione depressiva in cui la vita è “schiacciata sotto”, o “tirata giù”, da un peso connaturato al semplice fatto di esistere, oppure di una scrupolosità ossessiva, nella quale “l’equilibrio tra intenzione ed influenza delle circostanze si sposta nettamente a favore di quest’ultima, a causa dell’insicurezza, che indebolisce la precisa specificazione nella direzione della volontà”); quello della “solitudine” (nella quale “il problema resta quello della costituzione dell’Altro”, problema comune a tutte le forme di esistenza mancate, da quella melanconica a quella panica, da quella c.d. stramba a quella c.d. eccentrica, fino a quella dell’esaltazione fissata e della stabile instabilità); quello della “sacro” (“fondamento pre-categoriale del religioso”, ma pur sempre “categoria umana fondamentale”, che conserva il suo “restar-aperto al non sistema, alla differenza”, a quel “Volto” dell’altro di buberiana memoria).
In questo lungo, complesso e tormentato iter, lo psicopatologo è equiparato ad “un viandante”, un “cercatore di senso” che tenta di “incontrare se stesso nello sguardo dell’altro” e, alla fine, di “ritrovare l’altro dentro se stesso”.
Anche il criminologo clinico, più spesso di quanto creda, compie questo percorso e non sempre ne è pienamente consapevole. L’opera di Bruno Callieri, perciò, ha il grande pregio di poterlo rendere tale, vale a dire di formarlo non solo sul piano psicopatologico, ma anche antropologico, cioè a quel livello dove si radica la matrice del significato delle esperienze del soggetto autore o vittima di reato, sano o malato che sia.
Ne consegue, dunque, che l’apporto tecnico del criminologo clinico (in qualunque ambito si collochi, da quello peritale a quello trattamentale) non possa prescindere da siffatta impostazione e da contributi che, come quello di Bruno Callieri, la esprimono in modo magistrale, dal momento che, per “valutare”, prima è necessario “capire”, ma, prima ancora, bisogna “conoscere”: sé e l’altro.


Cristiano Barbieri

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